tappa 37

Tappa 37

Strada San Giovanni – Orto

San Giovanni. Archivio Moreschi.

Eravamo arrivati a San Giovanni, ora entravamo nel nostro. Mi toccherebbe qui di raccontare ancora ogni passo e ogni gesto e ogni mutamento d’umore all’interno del podere, ma tutto ora nella memoria prende una piega più imprecisa, come se, finita la salita col suo rosario di immagini, io venissi ogni volta assorbito in una specie di limbo attonito, che durava finché non veniva l’ora di dare mano alle ceste e riprendere la strada per tornare.

Ho già detto che soprattutto in questo aiutare nostro padre a portare le ceste consisteva il nostro dovere quotidiano. Ossia, avremmo dovuto aiutarlo in tutto, per imparare come si governa una campagna, per assomigliare a lui, come è giusto che i figli assomiglino al padre, ma presto s’era capito da una parte e dall’altra che non avremmo imparato niente, e l’idea di educarci all’agricoltura era stata tacitamente dimessa, o rimandata a un’età di nostra maggiore saggezza, come ci fosse concesso un supplemento d’infanzia. (La strada di San Giovanni)

Lo sforzo memoriale, filtrato attraverso la rielaborazione letteraria, ha alcune zone d’ombra. E l’autore non sembra lasciar trapelare una particolare partecipazione emotiva alla quotidiana occupazione che gli toccava in sorte né il ricordo serve a modificare qualcosa, tutto resta inalterato. Mario e Italo restano figure speculari: ciò che entusiasma l’uno, lascia indifferente l’altro e viceversa. Il ricordo si sofferma più diffusamente sulla fatica del percorso in salita e corre poi subito al trasporto delle ceste di frutta e verdura:

Tornava sempre carico. Era un punto d’onore per lui non fare mai il viaggio a mani vuote. E poiché per San Giovanni non passava la carrozzabile, non c’era altro modo di portar giù i prodotti della campagna che a forza di braccia, (di braccia nostre, perché le ore dei giornalieri costano e non si possono buttar via, e le donne quando vanno al mercato sono già cariche della roba da vendere). (La strada di San Giovanni)

La nostra proprietà s’interrompeva sulla piazza della chiesa di San Giovanni (dove ogni 24 di giugno si drizzava l’albero della cuccagna e suonava la banda civica) e riprendeva dopo un tratto di mulattiera, comprendendo tutta una valletta, occupata nella parte più bassa da una piantagione di foglie di palma per corone da morto, più in su tutta a verdura e frutta, col casolare detto Cason Bianco (dove tenemmo per un certo tempo le pecore), e una sorgente nascosta tra rocce verdi di capelvenere, e una caverna di tufo, e una grotta di roccia, e una peschiera […] (La strada di san Giovanni)

La strada di San Giovanni per Mario Calvino, e per i figli che di malavoglia lo seguivano nella stagione estiva, non era certo la strada carrabile che oggi porta questo nome e congiunge via senatore Ernesto Marsaglia con il rio San Giovanni, sotto i piloni del viadotto autostradale. Anzitutto era un percorso di campagna fra beudi e mulattiere, che abbiamo potuto fin qui solo parzialmente seguire in un contesto in ogni caso mutato. Ma era anche un serrato confronto fra padre e figlio. E sarebbe diventato, per via letteraria, molto più di una strada: un bilancio di sé e delle proprie radici.  

La campagna di San Giovanni, oggi. Fotografia di Giorgio Alassio.

Cos’era la natura? Erbe, piante, luoghi verdi, animali. Ci vivevo in mezzo e volevo essere altrove. Di fronte alla natura restavo indifferente, riservato, a tratti ostile. E non sapevo che stavo anch’io cercando un rapporto, forse più fortunato di quello di mio padre, un rapporto che sarebbe stata la letteratura a darmi, restituendo significato a tutto, e d’un tratto ogni cosa sarebbe divenuta vera e tangibile e possedibile e perfetta, ogni cosa di quel mondo ormai perduto. (La strada di San Giovanni)

✏️ Monica Revelli e Giorgio Alassio

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