tappa 36

Tappa 36

Strada Tasciaire – casa di Libereso 

Papà Calvino propose a me e mio fratello due borse di studio che ci avrebbero consentito di diventare giardinieri. C’è da dire che ci vedeva spesso zappare la terra e piantare bulbi nel pezzo di terra che nostro padre, un ebanista, aveva a San Remo. Sta di fatto che noi accettammo e da quel momento e per dieci anni tutto quello che avrebbe voluto insegnare ai suoi figli il professor Calvino lo trasmise a noi. (Ferrua)  

Libereso a Villa Meridiana. Archivio Moreschi.

È il 1940 quando Mario Calvino chiama a lavorare presso la stazione di floricoltura da lui diretta i due fratelli, Libereso e Germinal (all’anagrafe Libero primo e Libero secondo), figli di Renato Guglielmi, anarchico, pacifista, ateo, vegetariano, ido-esperantista, da lui educati alla libertà e alla non-violenza. 

– Come ti chiami?
– Libereso – disse il ragazzo giardiniere.
– Libereso… Libereso… che nome, Libereso.
– È un nome in esperanto, – disse lui. – Vuol dire libertà, in esperanto.
– L’esperanto è una lingua. Mio padre parla esperanto.
(Un pomeriggio, Adamo)

In breve Libereso diventa allievo del professore maturando al suo fianco una straordinaria conoscenza botanica che Mario Calvino avrebbe certamente voluto poter tramandare ai suoi figli. 

Intervista a Libereso Guglielmi, realizzata dalla Provincia di Genova (2009).

Dopo l’esperienza decennale a Villa Meridiana, Libereso ha diretto serre di orchidee e diverse colture floreali nel Sud Italia, per poi trasferirsi in Inghilterra dove è stato dapprima capo giardiniere al parco Middleton House di Enfield e poi tecnico specializzato in farmacognosi (la coltivazione delle piante medicinali) per la facoltà di farmacia dell’Università di Londra.

Figura eccezionale quella di Libereso, capace di passeggiare e fermarsi davanti a ogni fiore, far assaggiare a chi si intratteneva con lui qualsiasi tipo di erbetta, dai sapori più aspri a quelli più dolci e delicati. È impresso così, nella memoria di chi lo ha conosciuto.

In questo modo Libereso metteva a disposizione della comunità il suo sapere botanico. Il forte impegno divulgativo lo distingueva. Non si risparmiava mai nell’educazione ambientale di piccoli e grandi. Insegnare a riconoscere le erbe, a cucinarle, diffondere la cultura delle piante è sempre stata la sua ragione di vita. Abbozzava, disegnava (conobbe Antonio Rubino a Villa Meridiana) ricordava e tramandava ricette. Nulla doveva andare perduto, come suo padre prima di lui, era un anarchico pacifista. 

«Sai a chi si è ispirato per scrivere il Barone Rampante?» Libereso attende qualche secondo prima di continuare. «Il Barone rampante ero io!»

[…] in un bosco dove i pini erano molto fitti, lui e altri ragazzi si arrampicavano su un tronco per prendere le pigne, poi si spostavano di ramo in ramo senza scendere a terra. Italo Calvino non saliva con loro, ma li guardava guizzare tra le fronde. Così, da un gioco di ragazzi, è nata una delle più belle figure della letteratura italiana, Cosimo Piovasco di Rondò che non volle mangiare le lumache e si arrampicò su per l’elce. (Gallo) 

Non si tratta dell’unica possibile identificazione del barone rampante, anche Anton Luigi Laura, celebre collezionista antiquario (la sua villa di Ospedaletti è oggi un bene del FAI aperto al pubblico), amico di Italo Calvino, dichiarò di aver saputo dallo scrittore che il celebre personaggio aveva tratto ispirazione da lui. 

Ma torniamo a Libereso, la sua attività era manuale. Da intendersi letteralmente: da fare con le mani, se possibile anche senza l’ausilio di attrezzi agricoli. Era solito disegnare le sue piante e i suoi fiori, tanto che anche le sue ricette sono ricche di disegni.

La torta pasqualina, secondo Libereso. 

✏️ Gabriele Calzia, con la supervisione di Raffaella de Meo e Paola Consiglio (Liceo Vieusseux, Imperia).


🚶🏻A questo punto il percorso si interrompe. La “strada di San Giovanni” proseguiva per il futuro scrittore attraverso un beudo a mezza costa che è oggi per una piccola parte all’interno di una proprietà privata. Lo si può percorrere fino a che si incontra un cancello: consigliato. Facciamo quindi ritorno al ponte Tasciaire e riattraversiamolo, scendiamo ancora di qualche passo e prendiamo la ripida salita sulla destra (è ancora strada Tasciaire). Saliti per qualche curva (circa un centinaio di metri), la strada si fa più ripida e rettilinea. Qui si vede un sentiero sterrato sulla destra e subito a valle un piccolo beudo che andrà percorso fino all’incrocio con una mulattiera che sale ripida e ci conduce all’inizio di strada San Giovanni. Si percorrono circa 200 metri di strada carrabile in direzione monte e si svolta sulla destra imboccando una strada pedonale a gradoni in discesa. Si procede fino al torrente e, attraversato il ponte, si sale una ripida scalinata. Si svolta subito a sinistra scendendo e, giunti in vista di un altro ponte, che non andrà attraversato, si procede nella mulattiera che interseca in più punti la strada carrabile e conduce fino alla chiesa di San Giovanni.

Si tratta di un percorso in salita e piuttosto faticoso, proprio come lo descrive l’autore. Chi preferisce può raggiungere l’orto di San Giovanni con mezzi privati. Da piazza Colombo, si procede in via Marsaglia, poi rondò Volta e si imbocca via Zeffiro Massa. Alla rotonda si prende via San Francesco fino all’incrocio di Baragallo. Da qui si svolta a sinistra in direzione Santuario Madonna della costa. Superato il santuario si prosegue su via senatore Ernesto Marsaglia fino al bivio per San Giovanni da cui si raggiunge l’orto. In alternativa al mezzo privato, esiste un servizio di linea che parte dall’autostazione in piazza Colombo, ma le corse nell’arco della giornata non sono molte.

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